La Fraternità politica nella storia e nel futuro dell’Europa – Roma

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9 Maggio 2002

Ringrazio il Sindaco di Roma,

Dott. Walter Veltroni, e l’on. Antonio Tajani,

che hanno organizzato questo interessante incontro sull’Europa. Saluto gli autorevoli membri della tavola rotonda e ringrazio le personalità politiche qui intervenute. Sono grata per questo invito a prendere la parola davanti ad una così qualificata assemblea per un intervento un po’ singolare: come dare un’anima all’Europa. Lo faccio in un’occasione particolarmente importante per tutti coloro che hanno a cuore la pace fra i popoli e l’unità della famiglia umana. L’avvenimento che oggi celebriamo – l’entrata in vigore del trattato che istituì la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio – è stato, infatti, un momento di unità fra popoli che, fino a pochi anni prima, si erano combattuti nella seconda guerra mondiale, la quale, con gli abissi di odio scavati tra le persone e i popoli, ha messo in risalto le disastrose conseguenze della negazione di una verità fondamentale: la necessità della fraternità universale. Anche oggi, purtroppo, vediamo approfondirsi gli abissi dell’odio in numerose regioni del mondo; e specialmente in quella, geograficamente così vicina all’Europa, dalla quale dovrebbe invece provenire il più alto messaggio di pace, per il profondo le- game che essa ha con le grandi religioni monoteiste che hanno influito nella storia del nostro continente. L’odierna “Festa dell’Europa” può essere allora l’occasione per riflettere su alcuni contenuti di questa verità e dimostrare come essa sia centrale anche per la politica odierna. La fraternità universale non è stata assente dalla mente di qualche raro spirito forte.

Quanto è attuale, ad esempio, il richiamo del Mahatma Gandhi: «La regola d’oro – egli diceva – è di essere amici del mondo e considerare “una” tutta la famiglia umana. Chi distingue tra i fedeli della propria religione e quelli di un’altra, diseduca i membri della propria e apre la via al rifiuto e all’irreligione» 1. Ed è presente tuttora in qualche grande anima come il Dalai Lama che, a proposito di quanto è successo negli Stati Uniti nel settembre 2001, scrive ai suoi: «Per noi le ragioni [degli eventi di questi giorni] sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra, e il modo di ricordarlo è semplice: amare in questo momento e sempre». Ma dove affonda le sue radici questa grande idea, che esprime la realtà basilare dell’umanità? Chi ha portato la fraternità come dono essenziale all’umanità, è stato proprio Gesù, che ha pregato così prima di morire: «Padre, che tutti siano uno» (cf. Gv 17, 21). Un’unità, cioè una fraternità. E che sia Lui la stella del cammino verso la fraternità universale lo ha detto nel suo «sogno» Martin Luther King: «Un giorno o l’altro ci dovrà entrare in testa che, sebbene ci possano essere differenze politiche o ideologiche, i vietnamiti sono nostri fratelli, i russi sono nostri fratelli, i cinesi sono nostri fratelli: un giorno ci siederemo tutti al tavolo della fratellanza. In Cristo non ci sono né giudei né gentili. In Cristo non ci sono maschi e femmine. In Cristo non ci sono né comunisti né capitalisti. In Cristo, e pare quasi strano a dirsi, non ci sono né liberi né schiavi. In Cristo Gesù siamo tutti una cosa sola». Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, introduce l’idea dell’umanità come famiglia, l’idea della “famiglia umana” possibile per la fraternità universale in atto. E con ciò abbatte le mura che separano gli “uguali” dai “diversi”; gli amici dai nemici; che isolano una città dall’altra. E scioglie ciascun uomo dai vincoli che lo imprigionano, dalle mille forme di subordinazione e di schiavitù, da ogni rapporto ingiusto, compiendo in tal modo un’autentica rivoluzione esistenziale, culturale e politica.

L’idea della fraternità iniziò così a farsi strada nella storia. Ed è presente anche in momenti che hanno caratterizzato la storia d’Europa e che hanno preparato, da lontano, il grande progetto dell’unità europea. Prendiamo, ad esempio, quel manipolo di santi scelti come patroni dell’Europa. Patroni perché fondatori di essa, i quali, in momenti cruciali della storia, seppero intervenire piantando i pilastri e tracciando le fisionomie di quella che oggi noi chiamiamo Europa. Tra il V e il VI secolo, in uno dei periodi più critici per il continente, è stato Benedetto da Norcia che ha proposto ai suoi contemporanei un nuovo modello di uomo che, se da una parte, è completamente immerso in Dio, dall’altra forgia gli attrezzi e lavora la terra. La fraternità monastica, a partire da Benedetto, crea una rete di centri spirituali, economici e culturali attorno ai quali rinasce l’Europa. Rinascita spirituale e insieme sociale. Si è aggiunto in questo movimento, ampliandolo verso l’Est, l’azione dei fratelli Cirillo e Metodio, che nel secolo IX hanno impresso un’impronta indelebile nei popoli slavi, ideando una scrittura che ne esprimesse la lingua. Hanno inserito così più profondamente questi popoli nella comunione ecclesiale e hanno salvato, al contempo, la loro identità culturale. Hanno applicato, in questo modo, nei fatti, il modello cristiano di unità nella distinzione che appartiene al DNA dell’Europa e che continua ad essere il punto di riferimento nel cammino da compiere. E in un momento in cui l’Europa – rotti i precedenti assetti feudali, ma ancora priva di un nuovo equilibrio – sembrava avere smarrito il senso della propria unità spirituale, Brigida di Svezia e Caterina da Siena si rivolgevano ai potenti del loro tempo, con una autorità d’amore che ricordava il loro vero fine di servire la giustizia.

E ancora, con Edith Stein, quasi una nostra contemporanea, la santità si è calata nel profondo dell’orrore che sconvolgeva l’Europa, unificando, nel suo sacrificio personale, una duplice fedeltà: al suo popolo e alla sua fede. È morta come monaca cristiana; ma è morta perché ebrea. E ha posto così la pietra angolare di una casa europea nella quale tutte le religioni possono concorrere a costruire la fratellanza. C’è santità alle radici dell’Europa: e non solo di quella che la storia ci consegna, ma anche dell’Europa che noi oggi stiamo costruendo, come ci è testimoniato da alcune delle figure dei padri dell’Europa unita: Robert Schuman e Alcide De Gasperi, per i quali è stato avviato il processo di canonizzazione che testimonia la loro santità. Nel corso di esso si sta accertando, in particolare, come essi abbiano vissuto in maniera eroica non solo le virtù religiose, ma quelle civili che la loro professione politica richiedeva.

E se ritorniamo alla loro ispirazione originaria, al loro modo di intendere l’unità europea, possiamo trovare una luce per meglio concentrarci sull’obiettivo. Il primo passo, appunto, fu la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Ma la fusione delle produzioni di carbone e di acciaio non fu motivata dall’obiettivo di realizzare un “affare economico”. Fu definita invece una “solidarietà di produzione” che rendesse impossibile ogni forma di guerra tra Francia, Germania e gli altri Paesi che vi avrebbero aderito. Lo scopo era, dunque, la pace, salvaguardare la fraternità, e l’economia il mezzo. Come dichiarava Konrad Adenauer davanti al Bundestag nel giugno 1950: «L’importanza del progetto è soprattutto politica e non economica». E questo primo obiettivo, riguardante un settore industriale di primario interesse, era considerato solo una tappa verso l’effettiva unificazione economica dell’Europa, anch’essa a sua volta intesa – sottolineava Robert Schuman, echeggiando anche le idee di Jean Monnet – come «il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni». E che neppure l’Europa fosse il fine ultimo di questo sforzo di comunione, è esplicitamente dichiarato nel primo atto ufficiale di tutto il progetto, la “Dichiarazione Schuman”: «L’Europa, con maggiore copia di mezzi, potrà continuare la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano».

Nella visione dei fondatori, l’Europa dunque è una famiglia di popoli fratelli, non però chiusa in se stessa, ma aperta ad una missione universale: l’Europa vuole la propria unità per contribuire, poi, all’unità della famiglia umana. L’Europa unita, dunque, per arrivare ad un mondo unito. Un mondo unito? Sogno, si può pensare, specie in questa epoca contrassegnata da conflitti, da ingiustizie, da sottosviluppo e da terrorismo. Eppure la Chiesa lo afferma da tempo, parlando di un nuovo ordine mondiale, di un nuovo ordine economico, di globalizzare la solidarietà. I segnali di allarme che nell’ultimo periodo si sono accesi sotto gli occhi del mondo – a partire dagli attentati negli Stati Uniti con tutto ciò che ne è seguito, fino all’attuale tragica situazione della Terra Santa – ci fanno capire che questi ideali non sono soltanto opzioni facoltative, ma scelte attraverso le quali passa il cammino dell’uomo sulla terra. Ma come intanto proseguire l’opera di coloro che attraverso i secoli hanno costruito l’Europa? Per suscitare la fraternità in Europa, per darle un’anima che generi un’unità spirituale, garanzia dell’unità politica, economica, ecc., non mancano gli strumenti. Basta saperli individuare. Ne conosco uno, intanto, la cui efficacia non è ancora del tutto scoperta. È quello dell’apparire, dopo i primi decenni del Novecento, di decine e decine di nuovi Movimenti e Comunità ecclesiali, nati in gran parte nel nostro continente: in Spagna, in Francia, in Germania, in Italia, e non solo nella Chiesa cattolica. «Essi, diffusi dovunque in Europa, sono come tante reti che mettono insieme i popoli, le culture, le diversità, quasi a presentare un segnale che l’Europa può essere una casa delle nazioni perché lo è già a livello di laboratorio attraverso queste realtà».

Questi Movimenti, perché fondati o prevalentemente composti da laici, non mancano di un sentito, profondo interesse per il vivere umano e di una ricaduta nel campo civile, offrendo concrete realizzazioni politiche, economiche, ecc. Sono realtà, queste, venute in piena luce appena tre anni fa, quando la Chiesa si è riscoperta e ripresentata al mondo costituita, oltre che dall’aspetto istituzionale, anche da quello carismatico, coessenziale al primo. Questi Movimenti, seguendo ognuno il proprio carisma, concretizzano l’amore evangelico in tante forme, ma soprattutto, parecchie di queste, manifestano la forza dello Spirito, sempre attento alle necessità del momento, con la capacità che hanno di aprire a tutti gli uomini e donne del nostro pianeta un dialogo profondo che è via nuova alla fraternità. E quattro sono oggi i dialoghi veramente necessari anche per la fraternità in Europa: il dialogo all’interno di ogni Chiesa cristiana, già iniziato; il dialogo ecumenico, che aiuta il ricomporsi dell’unità fra i cristiani delle varie Chiese; il dialogo con le persone delle altre religioni: musulmani, ebrei, buddisti, ecc., oggi presenti anche in Europa per le ondate migratorie e gli interscambi legati alla globalizzazione.

Dialogo attuabile per la cosiddetta «regola d’oro», comune a tutte le principali religioni della terra, che dice: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te» (cf. Lc 6, 31). Regola d’oro che in fondo vuol dire: ama. E se noi, perché cristiani, amiamo, ed essi pure amano, ecco l’amore reciproco, da cui fiorisce la fraternità anche con loro. Dialogo infine con i nostri fratelli di altre culture – e sono forse i più – che pur non professando una fede religiosa, hanno iscritta pure essi nel DNA della loro anima la spinta ad amare. Oggi, poi, la chiamata a operare alla fraternità è partita dalla voce autorevole di Giovanni Paolo II il quale, il 6 gennaio 2001, ha proposto a tutti i cristiani, nella Lettera Novo millennio ineunte, la cosiddetta «spiritualità di comunione» che la rende possibile. Spiritualità che, già presente nella Chiesa da 60 anni circa in uno dei Movimenti, quello dei Focolari, ma limitata ad esso, ora, assunta dal Santo Padre, può animare la Chiesa intera ed oltre. Il suo segreto – così sottolinea il papa – sta nel fissare lo sguardo e imitare Colui che è stato l’artefice della fraternità e della ricomposizione dell’unità di tutti gli uomini, in Dio e fra loro, il Crocifisso, che grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Noi tutti, uomini, eravamo staccati dal Padre e divisi fra noi. Era necessario che il Figlio, nel quale tutti siamo rappresentati, provasse il distacco dal Padre col quale era una cosa sola (Gv 10, 30). Ma Egli non si è fermato nel baratro di quel dolore infinito. Con un immane sforzo s’è riabbandonato al Padre, dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46), ed ha così ricomposto l’unità con Dio e fra noi. È il mistero di Gesù abbandonato-risorto, che dà la possibilità a tutti noi, imitandolo, di superare ogni divisione e di intraprendere il dialogo con tutti.

Una cosa che qui può interessare è il fatto che nel Movimento dei Focolari (che non è il solo a servire anche l’ambito politico) la «spiritualità d’unità o di comunione» ha dato origine, fra il resto, anche ad un’espressione politica: il Movimento dell’unità, il cui scopo specifico è appunto la fraternità in politica. Esso, sorto qualche anno fa a Napoli, raccoglie l’esperienza di quei politici italiani che, fin dagli anni Cinquanta, hanno cercato di vivere questo ideale di unità, di fraternità. Ed ora si può costatare come, da ciò che ha posto in pratica ai diversi livelli dell’impegno politico, dall’amministrazione delle città fino all’attività parlamentare, è possibile ricavare alcune indicazioni concrete, che potrebbero essere sviluppate nella più grande dimensione continentale. Indicazioni che mi permetto di offrire pure qui. Si è capito, anzitutto, che esiste una vera vocazione alla politica. È una chiamata personale che emerge dalle circostanze e parla attraverso la coscienza. Chi crede vi avverte, con chiarezza, la voce di Dio che gli assegna un compito. Ma anche chi non crede si sente chiamato ad essa dall’esistenza di un bisogno sociale, da una categoria debole che chiede aiuto, da un diritto umano violato, dal desiderio di compiere il bene per la propria città o per la propria nazione. E la risposta alla vocazione politica è anzitutto un atto di fraternità: non si scende in campo, infatti, solo per risolvere un problema, ma si agisce per qualcosa di pubblico, che riguarda gli altri, volendo il loro bene come fosse il proprio. Il vivere così permette al politico di ascoltare fino in fondo i cittadini, di conoscerne i bisogni e le risorse; lo aiuta a comprendere la storia della propria città, a valorizzarne il patrimonio culturale e associativo: in tal modo arriva a cogliere, un po’ alla volta, la sua vera vocazione e a guardare ad essa con sicurezza per tracciarne il cammino. Il compito dell’amore politico, infatti, è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti i sacri amori della terra di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono sposarsi e hanno bisogno di una casa e di un lavoro, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole e di libri, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di strade e ferrovie, di regole certe…

La politica è perciò, per così dire, «l’amore degli amori», espressione gradita ai sindaci europei convenuti ad Innsbruck, il 9 novembre 2001, per il Convegno «Mille sindaci per l’Europa». Amore che raccoglie nell’unità di un disegno comune la ricchezza, consentendo a ciascuno di realizzare liberamente la propria vocazione. Ma fa pure in modo che collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse, le domande con le risposte, infondendo in tutti la fiducia gli uni negli altri. La politica si può paragonare allo stelo di un fiore, che sostiene e alimenta il rinnovato sbocciare dei petali della comunità. Vivere la nostra scelta politica come una vocazione d’amore ci porta a comprendere che anche coloro che hanno fatto una scelta politica diversa dalla nostra possono essere stati spinti da una analoga vocazione d’amore. E che anch’essi sono parte – nel loro modo – dello stesso disegno, pur presentandosi come avversari.

La fraternità permette di riconoscere il loro compito, di rispettarlo, di aiutarli – anche attraverso una critica costruttiva – ad esservi fedeli, mentre noi siamo fedeli al nostro. Si dovrebbe vivere la fraternità così bene da arrivare a stimare, ad amare il partito degli altri come il proprio, sapendo che entrambi non sono nati per caso, ma come risposta ad un’esigenza storica presente all’interno della comunità nazionale: e solo soddisfacendo a tutti gli interessi, solo armonizzandoli in un disegno comune, la politica raggiunge il proprio scopo. La fraternità fa emergere i valori autentici di ciascuno e ricostruisce l’insieme del disegno politico di una nazione. E l’amore per la propria Patria fa comprendere quello che gli altri hanno per la loro, nella quale, pure, esiste un disegno d’amore. Così colui che, rispondendo alla propria vocazione politica, inizia a vivere la fraternità, si immette in una dimensione universale che lo apre all’umanità intera. E tiene conto delle conseguenze universali delle proprie scelte, si chiede se ciò che sta decidendo, pur rispondendo agli interessi della propria nazione, non porti a un danno per le altre: il politico dell’unità vuole amare la Patria degli altri come la propria. Ed è in questa fraternità universale, che crea l’unità salvando le distinzioni, la vocazione dell’Europa. Essa è ancora in cammino. Le guerre, i regimi totalitari, le ingiustizie, hanno lasciato delle ferite aperte da sanare. Ma per essere davvero europei, dobbiamo pure riuscire a guardare con misericordia al passato, riconoscendo come nostra la storia della mia nazione e di quella dell’altro, riconoscendo che ciò che oggi siamo è frutto di una vicenda comune, di un destino europeo che chiede di essere preso interamente e consapevolmente nelle nostre mani. L’unità d’Europa domanda oggi, ai politici europei, di interpretare i segni del tempo, e di stringere tra loro quasi un patto di fraternità, che li impegni a considerarsi membri della Patria europea come di quella nazionale, cercando sempre ciò che unisce e trovando insieme le soluzioni ai problemi che ancora si frappongono all’unità di tutta l’Europa. Per un fine così alto vale senz’altro la pena di impegnare la propria esistenza. Signore e Signori, auguro a tutti noi che un giorno le nuove generazioni possano ritrovarsi per una “Festa dell’umanità”, nella quale, celebrando la raggiunta fraternità universale, si pensi con riconoscenza al lavoro e alle scelte che Loro, oggi, sono chiamati a compiere.

CHIARA LUBICH