La buona scuola

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20 Novembre 2014

Una riflessione sul piano educativo del Governo

Palazzina italia aula magna 05Parlare di scuola ci coinvolge nel profondo, riaccende le istanze del bambino che è in noi e che rivediamo nei nostri figli e nei nostri nipoti. A scuola tutti noi abbiamo percorso l’intera gamma delle emozioni e,  costruttive o devastanti,  ce le portiamo dentro per tutta la vita. Per questo a parlare di scuola ci si indigna e si spera, ci si arrabbia e si mette in moto la creatività.

Le 136 pagine del piano educativo del governo per cambiare la scuola,  lanciato due mesi fa dal Premier Renzi,  si sono scontrate,   da subito, col muro delle emozioni negative: troppe riforme e provvedimenti hanno acceso speranze tradite dai fatti, troppe volte etichette nuove hanno rivestito prassi mantenute identiche, troppe proposte interessanti sul piano pedagogico e didattico si sono rivelate dei contenitori vuoti.  Troppi sono stati i tagli sui finanziamenti e –last but not least!- troppo lavoro sommerso dei docenti è aumentato senza un reale riconoscimento economico.   Gli insegnanti  hanno vagato per anni di scuola in scuola, raggiungendo il burn-out prima del ruolo. Usano la LIM in aule fatiscenti.  Interagiscono con classi sovraffollate. Contribuiscono ad etichettare alunni con sigle varie (H, DSA, BES, ecc, ecc.) rischiando di individuare i problemi senza un’ adeguata possibilità di prendersi cura reale di tutte le creative diversità  presenti in classe.  Questi insegnanti faticano a  credere al cambiamento   e talvolta si fermano unicamente  a sottolineare i dubbi sulle coperture finanziare, giustamente posti dalle varie sigle sindacali.

Immagine di I, Sailko [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html), CC-BY-SA-3.0 o CC-BY-2.5], attraverso Wikimedia Commons

Eppure nel  documento sulla scuola ci sono anche  le potenzialità di un vero cambiamento:  la scuola è finalmente vista come risorsa centrale ed insostituibile nel progetto di ricostruzione del tessuto produttivo e culturale dell’Italia e non più come stipendificio succhia soldi. Una prospettiva fortemente sentita nel Paese, ma mai fatta propria in maniera operativa dagli ultimi governi. I docenti sono visti come la forza propulsiva nel cambiamento del sistema scolastico. E anche questo riconoscimento, pur solo sulla carta, non è scontato. C’è infatti chi vuole sottolineare  che “ la buona scuola” ci sia già, laddove ci sono i buoni insegnanti che l’hanno tenuta in piedi in questi anni, coltivando la propria professionalità con passione e impegno, nonostante tutto.

Affrontare definitivamente il problema del precariato è un aspetto unanimemente riconosciuto come una svolta epocale.  Promette di dare  alla scuola italiana una stabilità che manca da decenni. L’organico funzionale,  vero uovo di Colombo dell’organizzazione, apre prospettive reali  di innovazione.   Ma non deve  incepparsi  nel rischio di ammalarsi della  “supplentite” che vorrebbe curare. I docenti precari assunti non devono fare solo i supplenti. E il fatto  che la proposta  preveda che il docente sia a disposizione di una rete di scuole rende questo rischio molto concreto.   Una scuola autonoma e  dotata di finanziamenti certi e non frammentati  in mille rivoli disseminati lungo il corso dell’anno,   potrà avvalersi in modo organizzato delle  tante sfaccettature della professionalità docente e metterle a servizio del proprio progetto educativo.

Il docente che negli anni e spesso  a sue spese si è dotato, oltre che delle conoscenze sempre più dinamiche della propria disciplina, di competenze pedagogiche, relazionali, metodologiche, che si occupa di orientamento e di organizzazione, che progetta e si relaziona con le Istituzioni e le associazioni del territorio, nella prospettiva dell’organico funzionale correttamente inteso potrà mettere a frutto in maniera più sistematica quanto maturato nel tempo. In questo contesto  è d’obbligo porsi una domanda più generale che non viene direttamente affrontata nel documento, ma che appare cruciale, relativa al senso da dare a tutto il progetto educativo:   quale tipo di uomo, quale tipo di donna la scuola vuole formare?  Sembra un paradosso, ma la parola “educazione” sembra infatti non trovare spazio in molti collegi dei docenti, specialmente quelli della Scuola Secondaria,  impegnati in compiti gravosi, ma spesso in dubbio sul fatto che essere docente significhi anche essere educatore. E non solo come dichiarazione di principio.  Esiste uno scollamento  tra i progressi  nel campo della ricerca psico-pedagogica e la reale possibilità applicativa nelle scuole e il documento sulla “ buona scuola” non entra nel cuore dell’argomento. Quest’assenza  di dialogo tra i luoghi della pratica e quelli in cui troneggia la teoria è  evidente  nelle pratiche di insegnamento. Ancora oggi le scuole sono abitate da una didattica direttiva, dove è per lo più inesistente lo spazio per la costruzione del sapere e per l’apprendimento sociale, il tutto a svantaggio di una società capace di modificare se stessa e di fare rete.

Insomma:  chi studia approfonditamente non incontra gli studenti e chi interagisce ogni giorno con gli stessi,  non riesce a stare al passo con l’innovazione.  E ciò anche quando le circolari ministeriali recepiscono elementi nuovi. Si pensi  a tutta la tematica dei bisogni educativi speciali (i cosiddetti BES), ben formulata, lungimirante e profonda, ma non supportata da una formazione specifica, da risorse adeguate e spazi organizzativi che la rendano effettiva.

I nodi più discussi di tutto il documento appaiono, però,  quelli  relativi agli scatti di carriera e alla valutazione. Le domande sono tante, provengono dai docenti di ruolo, da quelli precari e dai giovani aspiranti. Si sottolinea il silenzio sui temi della mobilità anche in vista della riforma della PA. Il pericolo è che non si pensi a quanto fare da subito per chi già nella scuola ci lavora.  Gli scatti di anzianità, per non sottovalutare il valore dell’esperienza,  andrebbero mantenuti ed eventualmente integrati rispetto al merito. Merito di difficile misurazione in un paese come l’Italia, in cui vi è un’abitudine culturale distorta a riguardo. Difficile dire chi valuterà i valutatori e con quale oggettività e aderenza alle reali necessità delle scuole e non ad altri parametri discutibili. Difficile affidare ai Dirigenti oberati da responsabilità burocratiche e spesso non opportunamente formati a riguardo, compiti di valutazione della didattica centrati sugli studenti. Difficile adeguarsi ad un sistema di valutazione nazionale (v. INVALSI) che arriva alla fine di percorsi diversamente effettuati  perché realizzati in aree geografiche e culturali a differente densità di servizi e problemi.

Viene salutato unanimemente come positivo  il ricorso a più storia dell’arte, musica e sport perché la valorizzazione delle peculiarità italiane è ormai entrata nella coscienza comune come una risorsa  finora sottovalutata.  Bene le lingue straniere, ma su tutto un dubbio: sarà bellissimo avere bambini e ragazzi che sanno programmare, parlare le lingue, conoscere e praticare l’arte e lo sport. Il problema sarà farli stare sereni in classe a lavorare . Si dà per scontato  ciò che oggi a scuola manca e su cui una riforma dovrebbe prioritariamente intervenire. In questo senso potrebbe rivelarsi fondamentale l’apporto delle associazioni dei genitori, specie su tematiche quali la disabilità, l’adozione, i disturbi dell’apprendimento. Le competenze genitoriali, acquisite quotidianamente attraverso l’osservazione e il prendersi cura dei figli, supportate spesso da corsi di formazione e scambi di informazioni con gruppi di auto-aiuto, non trovano ancora degli adeguati canali di immissione nel circuito didattico.

Una riflessione più approfondita meriterebbe il capitolo sul lavoro. La scuola italiana, con l’eccezione degli  Istituti professionali , ha formato finora giovani che entrano in un’ azienda per la prima volta dopo l’Università, approdando in mondi sconosciuti e con una formazione principalmente teorica. L’alternanza scuola-lavoro è una necessità che va vagliata criticamente e curata con attenzione. Essenziale l’idea della co-progettazione tra scuola e azienda, ma occorrono molte risorse perché possa essere attuata. Che dire degli stage e delle visite osservative  in imprese situate in territori in cui le stesse chiudono una dopo l’altra? Solamente una consapevolezza profonda dell’importanza che tutti i giovani facciano esperienze altamente formative, anche viaggiando  dentro e fuori il territorio nazionale, può far comprendere quante energie e quante risorse vadano rivolte in questa direzione . Nel documento “la buona scuola” luci e ombre si susseguono. E’ evidente che occorre un cambiamento di mentalità dei docenti, della società nel suo complesso. E’ evidente che il cambiamento dovrà essere sostenuto da maggiore chiarezza rispetto alle possibilità attuative. E’ evidente, infine, che la scuola ci interessa come cittadini, che la coscienza collettiva nazionale sul suo valore è ardente e viva. Questo, almeno, sembrano dire i risultati della consultazione:  più di 3500 proposte on line,  oltre un migliaio di incontri in presenza su tutto il territorio nazionale.  Uno scossone partecipativo sulla scuola senza precedenti.