L’Europa unita per un mondo unito – Madrid

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3 Dicembre 2002

Signore e Signori,

ho risposto con gioia all’invito rivoltomi dal Movimento Europeo di svolgere una riflessione sul tema «L’Europa unita per un mondo unito». So infatti di parlare a persone per le quali “Europa” non è, certo, soltanto una parola, ma ha rappresentato, soprattutto nei momenti difficili della storia della Spagna, un orizzonte di speranza, un’appartenenza vitale, una realtà da conquistare e per la quale molti, forse anche qui presenti, hanno saputo pagare di persona. È dunque un grande onore per me rivolgere la parola a una così qualificata assemblea, e su un argomento che considera la nostra Europa come una realtà viva, alla quale proporre l’elevato obiettivo che, a partire da essa, deve andare oltre le dimensioni del continente, per raggiungere il mondo intero, un mondo unito. Loro converranno con me che per realizzare un principio così grande e universale, è necessario avere dei mezzi adeguati, altrettanto grandi e universali. Per questo, vorrei sottoporre alla loro attenzione un’idea-forza, che scaturisce dal cuore dell’ideale dell’unità che ha animato la mia esistenza e quella del Movimento dei Focolari, che rappresento; ideale che è riconosciuto come un dono che Dio ha voluto fare agli uomini del nostro tempo. Un dono gratuito, destinato a tutti, che non richiede iscrizioni e appartenenze, non divide in base alle culture, alle religioni, alle appartenenze politiche ma, anzi, illumina ciascuno su ciò che lo unisce agli altri, valorizzando le giuste distinzioni e l’originalità del contributo che ciascuno può portare al disegno comune dell’umanità. Questa idea-forza è la fraternità universale, che fa dell’intera umanità un’unica, reale famiglia. Questa idea non è stata completamente assente dalla mente di qualche raro spirito forte. Il Mahatma Gandhi, ad esempio, diceva: «La regola d’oro è di essere amici del mondo e considerare “una” tutta la famiglia umana». Ed è un’idea tuttora presente in qualche grande anima come il Dalai Lama che, a proposito di quanto è successo l’11 settembre 2001, scrive ai suoi: «Per noi le ragioni (degli eventi di questi giorni) sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato».

Ma chi ha portato la fraternità come dono essenziale all’umanità, è stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: «Padre (…) che tutti siano uno» (Gv 17, 21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, introduce l’idea dell’umanità come famiglia, l’idea della “famiglia umana” possibile per la fraternità universale in atto. E con ciò abbatte le mura che separano gli “uguali” dai “diversi”; gli amici dai nemici. E scioglie ciascun uomo da ogni rapporto ingiusto, compiendo in tal modo un’autentica rivoluzione esistenziale, culturale e politica. L’idea della fraternità iniziò così a farsi strada nella storia. E si potrebbe ripercorrere l’evoluzione del pensiero delle diverse epoche, rintracciandone la presenza, alla base di molte fondamentali concezioni politiche, a volte palese, altre volte più nascosta. Una fraternità spesso vissuta, anche se in maniera limitata, ogniqualvolta, ad esempio, persone di convinzioni diverse hanno superato ogni diffidenza per affermare un diritto umano. Quanto poi sia centrale, in particolare per la politica, la scoperta della fraternità, lo dice anche quell’importante evento storico, che costituisce uno spartiacque tra due epoche: la Rivoluzione francese. Nel suo motto: «Libertà, uguaglianza, fraternità», essa sintetizza il grande progetto politico della modernità, anche se essa stessa ha inteso i tre principi in un modo molto riduttivo. Inoltre, se poi numerosi Paesi, arrivando a costruire regimi democratici, sono riusciti a dare una certa realizzazione alla libertà e all’uguaglianza, la fraternità, in particolare, è stata più annunciata che vissuta.

La Rivoluzione francese, nonostante le sue contraddizioni, aveva però intuito quel che le esperienze successive hanno dimostrato: i tre principi stanno o cadono insieme; solo il fratello può riconoscere piena libertà e uguaglianza al fratello. Non si può più, dunque, guardare alla fraternità come a qualcosa di ingenuo, o di superfluo, o che si aggiunga alla politica dall’esterno. Tanto più che essa ha giocato un ruolo centrale nella storia dell’Europa, del quale, così mi sembra, dobbiamo forse essere maggiormente consapevoli. Prendiamo, ad esempio, un manipolo di santi, scelti come patroni dell’Europa, i quali, in momenti cruciali della storia, seppero intervenire piantando i pilastri e tracciando le fisionomie di quella che oggi noi chiamiamo Europa. Tra il V e il VI secolo, Benedetto da Norcia propose ai suoi contemporanei un nuovo modello di uomo che, se da una parte è completamente immerso in Dio, dall’altra forgia gli attrezzi e lavora la terra. La fraternità monastica, a partire da Benedetto, crea una rete di centri spirituali, economici e culturali attorno ai quali rinasce l’Europa. Rinascita spirituale e insieme sociale. Si aggiunge in questo movimento, ampliandolo verso l’Est, l’azione dei fratelli Cirillo e Metodio, che nel IX secolo impressero un’impronta indelebile nei popoli slavi, ideando una scrittura che ne esprimesse la lingua. Inserirono così più profondamente questi popoli nella comunione ecclesiale e salvarono, al contempo, la loro identità culturale. E in un momento in cui l’Europa sembrava aver smarrito il senso della propria unità spirituale, Brigida di Svezia e Caterina da Siena si rivolgevano ai potenti del loro tempo, con un’autorità d’amore che ricordava il loro vero fine di servire la giustizia. E ancora, con Edith Stein, quasi una nostra contemporanea, la santità si è calata nel profondo dell’orrore che sconvolgeva l’Europa, unificando, nel suo sacrificio personale, una duplice fedeltà: al suo popolo e alla sua fede. Morì come monaca cristiana; ma morì perché ebrea. E pose così la pietra angolare di una casa europea nella quale tutte le religioni possono concorrere a costruire la fratellanza.

C’è santità alle radici dell’Europa: e non solo di quella che la storia ci consegna, ma anche dell’Europa che noi oggi stiamo costruendo, come ci è testimoniato da alcune delle figure dei padri dell’Europa unita: Robert Schuman e Alcide De Gasperi. Per essi è stato avviato il processo di canonizzazione che testimonia la loro santità, nel corso del quale si sta accertando, in particolare, come essi abbiano vissuto in maniera eroica non solo le virtù religiose, ma quelle civili che la loro professione politica richiedeva. E se ritorniamo alla loro ispirazione originaria, al loro modo di intendere l’unità europea, possiamo trovare una luce per meglio concentrarci sull’obiettivo. Il primo passo fu la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Ma la fusione delle produzioni di carbone e di acciaio non fu motivata dall’obiettivo di realizzare un “affare economico”. Fu definita invece una “solidarietà di produzione” che rendesse impossibile ogni forma di guerra tra Francia, Germania e gli altri Paesi che vi avrebbero aderito. Come dichiarava Konrad Adenauer davanti al Bundestag nel giugno 1950: «L’importanza del progetto è soprattutto politica e non economica». E questo primo obiettivo, riguardante un settore industriale di primario interesse, era considerato solo una tappa verso l’effettiva unificazione economica dell’Europa, anch’essa a sua volta intesa – sottolineava Robert Schuman – come «il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni».

Ma un altro elemento, particolarmente importante per la nostra riflessione di oggi, è presente nei fondatori dell’Europa contemporanea: l’Europa non era considerata come il fine ultimo di questo sforzo di comunione, come è esplicitamente dichiarato nel primo atto ufficiale di tutto il progetto, la Dichiarazione Schuman: «L’Europa, con maggiore copia di mezzi, potrà continuare la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano». Nella visione dei fondatori, l’Europa dunque è una famiglia di popoli fratelli, non però chiusa in se stessa, ma aperta a una missione universale: l’Europa vuole la propria unità per contribuire, poi, all’unità della famiglia umana. Ma come intanto proseguire l’opera di coloro che attraverso i secoli hanno costruito l’Europa? Per suscitare la fraternità in Europa, per darle un’anima che generi un’unità spirituale, garanzia dell’unità politica, economica, ecc., non mancano gli strumenti. Basta saperli individuare. Uno, la cui efficacia non è ancora del tutto scoperta, è quello dell’apparire dopo i primi decenni del ’900, in nazioni soprattutto europee (Spagna, Francia, Germania, Italia, e non solo nella Chiesa cattolica) di decine e decine di nuovi Movimenti e Comunità ecclesiali che, perché fondati o prevalentemente composti da laici, non mancano d’un sentito, profondo interesse per il vivere umano e di una ricaduta nel campo civile, offrendo concrete realizzazioni politiche, economiche, ecc. Sono realtà carismatiche queste, come quelle che hanno arricchito i secoli passati (vedi, ad esempio, il Movimento francescano), atte a riportare la cristianità, spesso illanguidita e secolarizzata dal contatto col mondo, all’autenticità e alla radicalità dell’amore evangelico, materia prima per la fraternità, che va rivolto a tutti, quindi anche al nemico, che sa prendere sempre coraggiosamente l’iniziativa, che non è mero sentimentalismo ma concreto agire, che tratta tutti da uguali; che, vissuto da più, diventa reciproco e genera appunto fraternità, unità. Questi Movimenti, seguendo ognuno il proprio carisma, concretizzano l’amore in tante forme, ma soprattutto hanno spesso la capacità di aprire, con l’amore evangelico, a tutti gli uomini e donne del nostro pianeta un dialogo profondo. E quattro sono oggi i dialoghi veramente necessari anche per la fraternità in Europa: il dialogo all’interno di ogni Chiesa cristiana, il dialogo ecumenico, quello con le persone delle altre religioni: musulmani, ebrei, buddisti, ecc., oggi presenti anche in Europa per le ondate immigratorie e gli interscambi legati alla globalizzazione. Dialogo attuabile per la cosiddetta «regola d’oro», comune a tutte le principali religioni della terra, che, dicendo: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (cf. Lc 6, 31), invita tutti ad amare. Dialogo infine con i nostri fratelli – e sono forse i più – che non professano una fede religiosa, ma hanno iscritta pure essi nel DNA della loro anima, la spinta ad amare. Oggi, poi, la chiamata a operare alla fraternità è partita dalla voce autorevole di Giovanni Paolo II il quale, il 6 gennaio 2001, ha proposto a tutti i cristiani, nella Lettera Novo millennio ineunte, la cosiddetta «spiritualità di comunione» che la rende possibile. Il suo segreto sta nel fissare lo sguardo e imitare Colui che è stato l’artefice della fraternità e della ricomposizione dell’unità di tutti gli uomini, in Dio e fra loro, il Crocifisso, che grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Noi tutti, uomini, eravamo staccati dal Padre e divisi fra noi. Era necessario che il Figlio, nel quale tutti siamo rappresentati, provasse il distacco dal Padre col quale era una cosa sola (Gv 10, 30). Ma Egli non si è fermato nel baratro di quel dolore infinito. Con un immane sforzo, si è riabbandonato al Padre, dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46), ed ha così ricomposto l’unità con Dio e fra noi.

È il mistero di Gesù abbandonato-risorto, che dà la possibilità a tutti noi, imitandolo, di superare ogni divisione e di intraprendere il dialogo con tutti. Se i nuovi Movimenti, in genere, hanno l’interesse delle cose umane, uno di essi, il Movimento dei Focolari, ha dato origine anche ad un’espressione politica: il Movimento politico per l’unità, il cui scopo specifico è appunto la fraternità in politica. Esso è qui rappresentato dalla sua presidente, l’on. Lucia Crepaz, deputato italiano per due legislazioni. Il Movimento politico per l’unità, sorto a Napoli nel 1996, raccoglie l’esperienza di quei politici italiani che, fin dagli anni ’50, hanno cercato di vivere questo ideale dell’unità. E ora si può costatare come, da ciò che ha posto in pratica ai diversi livelli dell’impegno politico, dall’amministrazione delle città fino all’attività parlamentare, è possibile ricavare alcune indicazioni concrete, che potrebbero essere sviluppate nella più grande dimensione continentale. Si è capito, anzitutto, che esiste una vera vocazione alla politica. Chi crede, vi avverte la voce di Dio che gli assegna un compito. Ma anche chi non crede si sente chiamato ad essa, ad esempio, dall’esistenza di un bisogno sociale, da una categoria debole che chiede aiuto… E la risposta alla vocazione politica è anzitutto un atto di fraternità: si scende in campo, infatti, per qualcosa di pubblico, che riguarda gli altri, volendo il loro bene come fosse il proprio. Anzi, il compito dell’amore politico è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri amori di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono sposarsi e hanno bisogno di una casa e di un lavoro, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole e di libri, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di strade e ferrovie, di regole certe… La politica è perciò l’amore degli amori, che fa in modo che le persone collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse, infondendo in tutti la fiducia gli uni negli altri. La politica si può paragonare allo stelo di un fiore, che sostiene e alimenta il rinnovato sbocciare dei petali della comunità.

Nel Movimento politico per l’unità costatiamo che il vivere la propria scelta politica come una vocazione d’amore porta a comprendere che anche coloro che hanno fatto una scelta politica diversa dalla nostra, possono essere stati spinti da un’analoga vocazione d’amore. E che anch’essi sono parte – nel loro modo – dello stesso disegno, pur presentandosi come avversari. La fraternità permette di riconoscere il loro compito, di rispettarlo, di aiutarli – anche attraverso una critica costruttiva – ad esservi fedeli, mentre noi siamo fedeli al nostro. Nel Movimento politico per l’unità si pensa che si dovrebbe vivere la fraternità così bene da arrivare ad amare il partito degli altri come il proprio, sapendo che entrambi non sono nati per caso, ma come risposta ad un’esigenza storica presente all’interno della comunità nazionale. La fraternità fa emergere i valori autentici di ciascuno e ricostruisce l’insieme del disegno politico di una nazione. Lo testimoniano, ad esempio, le iniziative di membri del Movimento politico per l’unità volte a creare un rapporto fraterno tra maggioranza e opposizione, sia a livello di Parlamenti nazionali, sia nel governo delle città, iniziative che si sono tradotte in leggi dello Stato o in politiche locali che hanno unito le città nelle quali si sono realizzate. Così colui che, rispondendo alla propria vocazione politica, inizia a vivere la fraternità, si immette in una dimensione universale che lo apre all’umanità intera. E si chiede se ciò che sta decidendo, pur rispondendo agli interessi della propria nazione, non porti ad un danno per le altre. Il politico dell’unità ama la Patria degli altri come la propria. Attraverso i secoli, continuerà ad approfondirsi la percezione di che cosa è l’Europa e, contemporaneamente, se ne ampliano i confini: dalla piccola Grecia la coscienza europea arriverà a comprendere se stessa dall’Atlantico agli Urali. E questo in modo speciale grazie alla penetrazione del cristianesimo, che infonde nei popoli dell’Europa “geografica” i principi religiosi che sviluppandosi in principi civili, sociali e politici, costruiranno l’Europa. E tutto ciò senza soffocare le distinte identità cittadine e le identità nazionali che si sono andate via via formando. E ad ogni passaggio d’epoca ritroviamo la stessa situazione: ciò che, ad un dato momento, si pensava essere l’Europa, è risultato troppo piccolo, si è trovato alle prese con qualcosa di diverso che sfidava l’Europa a prenderlo dentro modificandolo e modificandosi. E facendo ciò, l’Europa è andata sempre più verso se stessa, verso la piena maturazione del seme cristiano che non si esprime più, certo, nella “cristianità” medievale, ma, più profondamente, nella dinamica della fraternità universale, che coinvolge persone e popoli diversi fra loro. Questa fraternità universale, che crea l’unità salvando le distinzioni, vocazione dell’Europa, è ancora in cammino. Le guerre, i regimi totalitari, le ingiustizie, hanno lasciato delle ferite aperte da sanare.

Ma per essere davvero europei, dobbiamo riuscire a guardare con misericordia al passato, riconoscendo come nostra la storia della mia nazione e di quella dell’altro, riconoscendo che ciò che oggi siamo è frutto di una vicenda comune, che chiede di essere presa interamente e consapevolmente nelle nostre mani. I politici europei devono considerarsi membri della Patria europea come di quella nazionale. Non solo. L’Europa che vive la propria vocazione alla fraternità, e la testimonia, deve portarla poi in tutto il mondo. Già: in tutto il mondo. L’Europa ha da costruire la propria unità in vista di un mondo unito. Del resto, quella di unirsi, per gli Stati, è un’esigenza non più rinviabile. Essa è determinata dall’attuale fisionomia della Comunità internazionale che presenta un continuo ampliarsi delle relazioni tra popoli. Ed ecco il consolidarsi di unioni fra Stati, ormai presenti in tutti i continenti. Un caso recente è l’Unione Africana che ha visto la luce nel luglio 2002, chiamata a modellarsi intorno al concetto africano di «cooperazione comune solidale», così da garantire, accanto all’integrazione economica, una coesione sociale e umana tra le diverse anime di quel continente.

Sono da ricordare poi le Conferenze iberoamericane che periodicamente indicano obiettivi comuni all’azione dei Paesi dell’America Latina, della Spagna e del Portogallo. E ancora, le riunioni tra i Paesi che sono parte dell’APEC, il sistema di cooperazione economica tra l’Asia e il Pacifico, che vede unirsi intorno a obiettivi comuni i Paesi del continente asiatico e di quello americano. Certo, se ricerchiamo i motivi di questa costante tensione all’unità politica tra gli Stati, vengono in luce esigenze di stabilità e di cooperazione relative all’ambito politico generale, a quello economico, a quello della sicurezza o a quello della giustizia. In determinati contesti poi, l’integrazione è chiamata a favorire il superamento delle situazioni di dipendenza dall’esterno, spesso retaggio dell’esperienza coloniale. Ma, a spiegare un tale processo, concorre anche il desiderio di persone e opinioni pubbliche sempre più spinte dal desiderio di unità, orientate cioè a rendere effettive le forme di cooperazione comune, partendo dal livello “più basso”: quello della propria famiglia, del quartiere, della città, dello Stato, fino alla dimensione internazionale. Si tratta di una cultura “nuova” delle relazioni internazionali. Dopo i fatti dell’11 settembre, la lotta al terrorismo ha certamente visto uniti gli sforzi della maggior parte degli Stati, in particolare di quelli del mondo occidentale che ad un tratto si sono sentiti “indifesi” e “indifendibili”. Si è parlato di impegno comune tra gli Stati per una giustizia che occorreva perseguire, anche se si è forse dimenticato troppo in fretta quanto si era capito e cioè che attraverso l’unità fra gli Stati è possibile non sconfiggere il terrorismo in astratto, ma le cause che lo determinano: cooperazione, sviluppo, alfabetizzazione, educazione, che debbono essere gli obiettivi immediati. Comunque c’è voluto l’11 settembre perché gli Stati accettassero l’idea della loro unità.

Dell’unità politica, come garanzia di pace, progresso e stabilità, c’è chi ne parla da tempo in modo sistematico. Sono i pontefici romani che, per la grazia straordinaria di cui sono investiti, sanno certamente leggere, più chiaramente di altri, i segni dei tempi e indicare così ai responsabili degli Stati quali possano essere i momenti adatti per intervenire al bene dell’umanità in una maniera o in un’altra. Già Benedetto XV, nella sua enciclica Pacem Dei Munus (1920), al termine della prima guerra mondiale, scriveva: «Sarebbe veramente desiderabile (…) che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio» (n. 10). Anche Pio XII torna sul tema più volte. Nell’enciclica Summi Pontificatus (1939), dopo aver affermato l’unità del genere umano come fatto voluto dal Creatore, dice: «E i popoli, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinati a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo ed abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile ed insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino» (n. 17). Nel Radiomessaggio del Natale 1953, poi, afferma: «Il cammino verso la Comunità dei popoli e la sua costituzione non ha come norma unica ed ultima la volontà degli Stati, ma piuttosto la natura, ossia il Creatore» (n. 5). Giovanni XXIII nella Pacem in terris (1963) dice: «I recenti progressi delle scienze e delle tecniche incidono profondamente sugli esseri umani, sollecitandoli a collaborare tra loro e orientandoli verso una convivenza unitaria a raggio mondiale. (…)

Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e svilupparsi chiudendosi in se stessa» (n. 68). Paolo VI, nel Discorso all’ONU (1965) ai rappresentanti degli Stati dice: «La vostra vocazione è di far fraternizzare non già alcuni popoli, ma tutti i popoli. Difficile impresa, ma questa è l’impresa, la vostra nobilissima impresa. Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un’autorità mondiale capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?». Giovanni Paolo II, nel Messaggio in occasione del 50° della fine della II guerra mondiale (1995), rivolgendosi ai giovani scrive: «A voi è affidata la missione di aprire nuove vie di fratellanza tra i popoli, per costruire un’unica famiglia umana (…). Lo richiede la legge morale iscritta dal Creatore nell’intimo di ogni persona, (…) e portata infine a perfezione da Gesù nel Vangelo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lc 19, 18; Mc 12, 31); (…). È possibile realizzare la civiltà dell’amore e della verità solo se l’apertura all’accoglienza dell’altro si estende ai rapporti tra i popoli, fra le nazioni e le culture. Risuoni nella coscienza di tutti questo invito: Ama gli altri popoli come il tuo! La via del futuro dell’umanità passa per l’unità». E che l’unità del mondo non sia solo un’utopia, come qualcuno può pensare, lo dicono le seguenti parole sempre di Giovanni Paolo II, rivolte ai nostri giovani pochi anni fa: «Davvero questa sembra la prospettiva che emerge dai molteplici segni del nostro tempo: la prospettiva di un mondo unito. È la grande attesa degli uomini di oggi (…) e, nello stesso tempo, la grande sfida del futuro. Ci accorgiamo che verso l’unità si sta procedendo sotto la spinta di un’eccezionale accelerazione».

Contemporaneamente non è difficile leggere nelle relazioni internazionali contemporanee alcune difficoltà, come la contrapposizione – che per certe persone è l’alternativa – tra la localizzazione, o frammentazione, e la globalizzazione, o mondializzazione. E questo fa capire che, per arrivare veramente ad un mondo unito, i problemi sono ancora tanti. E poi c’è il terrorismo, che complica le cose anche se, paradossalmente, può rappresentare un motivo in più per raggiungere l’obiettivo. Occorre perciò studio paziente, occorre sapienza, occorre soprattutto non dimenticare che c’è Qualcuno che segue la nostra storia e desidera – se collaboriamo con la nostra buona volontà – attuare i Suoi disegni d’amore su tutto il nostro pianeta. Il Movimento politico per l’unità, di cui ho già parlato, s’ispira, nel suo spirito e nel suo agire, al Testamento di Gesù, alla sua lunga preghiera al Padre prima di morire. In esso il nostro essere una sola cosa con Lui coincide con l’essere una sola cosa tra noi, nonostante le diversità di popoli, di razze, di appartenenza ad uno Stato. Una sola cosa che, evidentemente, non annulla le diversità, ma le armonizza in unità. Da esso emerge chiaramente che l’unità della famiglia umana, come parte del disegno di Dio sin dalla creazione, è capace di superare le evidenti divisioni, non solo quelle territoriali, ma anche quelle frutto di scelte politiche, di condizioni etniche, religiose, linguistiche… (cf. 1 Cor 12). Partendo da questo presupposto, si capisce come il Testamento di Gesù appaia un’enorme risorsa per le relazioni internazionali poiché contiene in sé il germe di ogni forma di integrazione e unità tra i popoli: l’unità, e il metodo per raggiungerla: l’amore scambievole. La conseguenza è il rifiuto di discriminazione, di guerre, di controversie, di nazionalismi, di rivendicazioni dell’interesse nazionale. Emerge pure l’esigenza di porre a disposizione di tutti i popoli i beni della creazione quali doni Dio, e così superare il sottosviluppo di alcuni e l’ipersviluppo di altri: è l’idea della “comunione”, della fraternità universale in atto. Che il Signore ci dia, alla luce del suo Testamento, di concorrere a realizzare questa fraternità dove e come possiamo; si potrà così contribuire non solo all’unità ma alla pace universale tanto agognata.

CHIARA LUBICH