Presidente, il governo è nato da pochi giorni. Gli addetti ai lavori sottolineano alcuni “primati”: la prima donna presidente del Consiglio, il primo esecutivo in cui è predominante la componente di esponenti post-Msi, quindi di destra radicale… Come legge questo momento della politica nel nostro Paese?
Intanto ritengo doveroso formulare gli auguri alla presidente Meloni e ai nuovi ministri. Tra le istituzioni della nostra Repubblica, il governo elabora e persegue una visione organica di azione politica per realizzare l’interesse generale. Se ci mettiamo dalla prospettiva del nostro patto costituzionale, non possiamo pensare a un governo che lasci indietro persone e categorie per perseguire politiche parziali e discriminanti, né pensare che ci siano cittadini consapevoli che facciano il tifo per il fallimento dell’esecutivo. Augurare buon lavoro al governo che è nato non è un atto formale ma un gesto di maturità democratica, di fiducia verso le istituzioni nel loro complesso e delicato equilibrio.
Anche lei celebra come storico l’avvento di una donna a Palazzo Chigi?
La nostra associazione ha una consolidata esperienza di corresponsabilità tra donne e uomini a ogni livello, dalla parrocchia al centro nazionale. Anzi, forse in tanti anni partiti e istituzioni avrebbero potuto mutuare qualcosa di questo nostro riuscito modello, che tra l’altro è anche un modello intergenerazionale perché analogo senso di corresponsabilità è trasversale tra adulti, giovani, adolescenti, ragazzi e bambini. Veniamo da un anno in cui, come Ac, abbiamo portato costantemente all’attenzione della Chiesa e della società la figura di Armida Barelli. Sappiamo che la politica, così come l’economia e il mondo del lavoro, delle professioni, dell’università, della ricerca debbono crescere nel riconoscimento del genio femminile. Il segnale che viene dalla nomina di Meloni a presidente del Consiglio è senza dubbio positivo ma sarebbe ingenuo considerarlo risolutivo di una questione culturale molto profonda e, se posso esprimermi così, molto provinciale.
Tradizionalmente, è storia ed è anche una questione di cultura politica, i governi di destra hanno più attenzione verso i settori produttivi e meno verso il sociale. L’Ac che ruolo sente di assumere verso questo esecutivo?
L’Azione cattolica non ha ruoli precostituiti da assumere verso alcun tipo di governo. Alcuni rischi li vediamo, ovvero di passi indietro, ad esempio, sulla transizione ecologica, sulla solidarietà e l’accoglienza, sulla proiezione internazionale del Paese. Tuttavia è giusto aspettare la prova dei fatti. Da parte nostra, la barra sarà sempre dritta sul rispetto dei valori costituzionali e sull’indicazione alla politica dei principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa, principi da custodire con sapienza, da mediare con prudenza e che non possono essere strumentalizzati dagli interessi di qualsiasi parte, destra, sinistra o centro.
Nella destra c’è un’anima che si può chiamare “teocon”, insomma cattolico-conservatrice. Un’anima che ha avuto un riconoscimento anche con posizioni istituzionali. Nell’altro campo, invece, la componente che si definisce cattolico-democratica soffre per i pochi spazi, il poco ascolto che ottiene. Sappiamo che è un tema delicato per un’associazione come l’Ac, ma forse qualche indicazione occorre darla.
Sono profondamente convinto, anche alla luce del dibattito che ha preceduto e accompagnato queste ultime elezioni politiche, che occorra una riflessione sul cattolicesimo democratico da fare con grande franchezza e disponibilità a un confronto che va condiviso nel Paese e non ristretto a pochi circoli eletti. Ne avevamo già parlato in uno degli ultimi numeri di Segno nel mondo.
Già da qualche anno è si avviato un dibattito interno alla comunità ecclesiale sulla necessità di un nuovo impegno alla partecipazione civica di tutti i credenti e a un impegno diretto dei cattolici nei partiti e nelle istituzioni: è qualcosa che riguarda l’ordinarietà della esperienza di fede e l’estroversione della pastorale e della vita ecclesiale. Il Sinodo sta evidenziando la fatica di maturare insieme visioni condivise nell’affrontare la complessità e di esprimere una maggiore corresponsabilità nel pensare e nell’agire. Individualismo e semplificazione rischiano di aprire la strada all’integralismo e al fondamentalismo, così come la logica della delega e del disimpegno (che per certi versi spiega l’astensionismo) si connettono con una vita ecclesiale non sintonizzata sulle tensioni della vita dei laici e poco disponibile alla loro valorizzazione.
Tutto ciò premesso, mi pare di poter dire che c’è un desiderio di nuova partecipazione e un bisogno di esprimersi con maggiore efficacia nel dibattito pubblico da credenti. Ciò che è avvenuto in queste ultime elezioni ci suggerisce che è anche (ma non solo) una questione di strumenti, di luoghi e di meccanismi che favoriscano tale sensibilità. Un ceto politico autoreferenziale e disancorato dai territori e la mancanza di partiti che siano strumenti reali di partecipazione sono una questione sulla quale anche l’Ac intende interrogarsi, avviando un dibattito anche con le altre aggregazioni laicali e movimenti ecclesiali e, attraverso tali reti e alleanze, con tutto il Paese.
Contemporaneamente sentiamo di volgere uno sguardo differente verso quanti – e sono tantissimi! – scelgono la politica e l’impegno amministrativo come luogo del servizio, accompagnandoli in percorsi di riflessione sulla propria esperienza e di confronto e scambio sui temi concreti.
Impegnarsi da cattolici in politica può soprattutto manifestarsi con uno stile di vivere la politica come servizio al bene comune (ossia al bene di tutti e non solo di una parte) e ricerca continua di dialogo nelle forme che la nostra democrazia ci offre alla ricerca di sintesi alte e lungimiranti.
Il ministero della Famiglia ora si chiama “della Famiglia e Natalità”. Come ha vissuto queste “modifiche lessicali” ai nomi dei dicasteri?
È troppo presto per dire se tali modifiche assumo un significato politico o programmatico o sono solo una sorta di vetrina. È dovere del governo e dei ministri spiegare, via via, cosa intendano per “merito” applicato alla scuola, cosa significhi non dire più “transizione ecologica”. Il governo ha il dovere di spiegare, i cittadini il diritto di farsi un’idea. Quanto alla natalità, distinguiamo. Prima ci sono i numeri, che sono davvero importanti e ci mettono tanta preoccupazione. L’Istat ci richiama al fatto che se non si ferma il calo demografico nel nostro Paese, nell’arco dei prossimi trent’anni ci saranno 5 milioni di abitanti in meno e nel 2070 il Pil calerà di 560 miliardi. Poi, al di là dei numeri, c’è la politica. Che fino ad adesso, purtroppo, si è mossa quasi sempre in un’ottica di illusionismo verbale o assistenzialismo fiscale. Qui non c’entra niente la confessione religiosa. Rimettere la famiglia al centro dello sviluppo economico del nostro Paese e dei diritti di cittadinanza riguarda tutti: destra, sinistra, centro, cattolici, atei e agnostici. Sarà fondamentale vedere quanto il nuovo governo riuscirà a far diventare le politiche per le famiglie, sostanzialmente delle politiche “attive”. Lo capiremo sin dalla prossima manovra.
La pace necessaria. Il governo italiano dovrebbe giocare un ruolo in Europa per rafforzare le ragioni della pace, come chiede, ad esempio, la piazza del 5 novembre?
Mi rifaccio alla nota di recente pubblicata dall’associazione e frutto del lavoro del Consiglio nazionale. Se ci sono piazze che chiedono pace nel pieno rispetto del martoriato popolo ucraino, esse possono pressare la politica a cercare e trovare vie che sinora non si sono esplorate. Nella nota diciamo: pace, giustizia, libertà e verità insieme. Allo stesso tempo penso non si possa aspettare che la guerra finisca d’incanto, o solo con i progressi militari sui campi di battaglia che continueranno a essere pagati da troppe vittime innocenti. Occorre un maggiore e deciso investimento sulla via diplomatica a ogni livello che impegni i diversi attori in campo. Credo in particolare che sia arrivata l’ora che i governi dell’Europa, esprimendosi nella comune voce comunitaria, propongano un percorso di pace ai contendenti.
Chi non abita le stanze del potere che cosa può fare per la pace?
Innanzitutto fare memoria. Raccogliere l’invito della senatrice a vita Liliana Segre a non dimenticare che siamo figli di una tradizione democratica – forse troppe volte ignorata – che, attraverso la Costituzione repubblicana, ha consolidato come fondamenta del patto civico italiano la promozione della dignità della persona umana, il ripudio della guerra e la promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni. Sempre più incoraggiati dagli sviluppi del diritto internazionale a tutela della pace e dei diritti umani fondamentali e dal magistero della Chiesa, riconosciamo che la pace sia un bene necessario e un “compito” inderogabile e quotidiano per tutti. Senza pace non c’è futuro per nessuno.
Prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina. L’economia italiana arranca e con essa il Paese. Il sistema produttivo e le famiglie sono alle prese con il caro bollette che rischia di vanificare gli stessi auspicati effetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Qual è la strada per uscire dal tunnel?
Ho sempre pensato che la transizione ecologica ed energetica da sole non bastassero per modificare in profondità il modello di sviluppo nella prospettiva autentica della sostenibilità, della generatività sociale e dell’inclusione. Occorre una vera e propria trasformazione, animata dalla conversione ecologica e alimentata da una fiducia che un futuro diverso è possibile. Una nuova visione di futuro, come la definisce l’enciclica Fratelli tutti. Un sogno comunitario e condiviso che viene dalla Speranza cristiana. Ancora una volta il nostro sistema economico e sociale – di cui la pandemia aveva rivelato contraddizioni e vulnerabilità – è perturbato e scosso da un nuovo shock, ma se non faremo tutti i conti con un profondo e radicale cambiamento dei nostri stili di vita in senso più sobrio e condiviso, ma anche dei sistemi organizzativi e produttivi, se non metteremo mano a una revisione etica delle istituzioni finanziarie e a una diversa regolazione dei beni pubblici e dei beni comuni, continueremo a essere esposti alla logica estrattiva e rapace della speculazione, alla persistenza di shock dagli effetti asimmetrici che non faranno altro che approfondire le disuguaglianze a ogni livello.
Abbiamo più volte ripetuto nei mesi scorsi una frase di don Tonino Bello: occorre organizzare la Speranza. Dobbiamo ricordarla in questo tempo, per essere tutti più consapevoli che la trasformazione inizia nel locale e nel breve periodo con la partecipazione dei cittadini, e che però ha bisogno in una scala più macro e in una prospettiva di medio-lungo periodo di un impegno di tutte le istituzioni. Ci auguriamo che l’agenda di governo non si fermi alle urgenze ma affronti i nodi più strutturali del Paese, mobilitando tutte le energie presenti nel Paese, incoraggiando le iniziative dal basso e non perdendo di vista i più fragili e deboli.
Si celebrerà tra pochi giorni a Roma l’Incontro nazionale dei responsabili del Settore giovani di Ac che vedrà, tra l’altro, sabato 29 ottobre, la presenza di papa Francesco. Si parla spesso di protagonismo dei giovani nella società e nelle istituzioni, ma la sensazione è che, appunto, se ne parli e basta. È arrivato il momento di una vera svolta?
L’Azione cattolica, al cui interno aderiscono migliaia di giovani, più volte ha accolto e ascoltato il disagio e la grave frustrazione delle nuove generazioni, schiacciate da precarietà selvaggia, scarsi orizzonti di crescita professionale e occupazionale, prospettive molto più cupe di quelle che avevano dinanzi i loro genitori e nonni. Un disagio e una ferita profonda cui vorremmo dare voce. Si sono chiusi molti degli spazi di confronto tra adulti e giovani, così diventa urgente riannodare i fili di un dialogo tra le generazioni in ogni settore della vita sociale e civica. Un tempo paradossale caratterizzato da un lato da una mobilità estrema dei giovani, sempre più costretti lasciare il posto dove sono cresciuti, e una immobilità sociale che rende “avventuroso” e precario l’inserimento sociale. Ma non solo. C’è un impoverimento e un invecchiamento precoce delle organizzazioni e delle istituzioni, dovuto alla mancanza di un apporto dei giovani alle prese con una esistenza sempre più precaria e priva di punti fermi. Una gerontocrazia che ha la forma sia dell’occupazione dei posti di potere da parte delle persone in là con gli anni (si pensi all’innalzamento dell’età media del nuovo Parlamento), ma anche l’impermeabilità di tante istituzioni alle idee e alle sensibilità dei giovani. Politica, partiti, sindacati, scuola, università, lo stesso mondo dell’associazionismo rischiano di rinunciare a un proprio proverbiale compito: veicolare nel dialogo pubblico i semi di novità che sempre provengono dalle nuove generazioni. In assenza di luoghi in cui ci sia un reale confronto e un reale ascolto, cosa resta ai giovani? Una asfittica accettazione dello stato di fatto? Aggiungo che, specie in un quadro di crisi generale del Paese, il dialogo tra le parti sociali, e in particolare con i giovani, è una delle urgenze del momento storico. Rinunciarvi in nome delle proprie idee e delle proprie convinzioni porta solo in un vicolo cieco. Vorrei, da questo punto di vista, ribadire di nuovo il peculiare contributo di associazioni come l’Azione cattolica che hanno come fine proprio il pieno protagonismo, nella realtà, di adulti, giovani e ragazzi e che realizzano attraverso la vitta associativa un modello di dialogo intergenerazionale vero, anche se faticoso, ma che ha il gusto del futuro.
*L’intervista nasce da un colloquio sui temi di attualità tra il presidente Giuseppe Notarstefano e i giornalisti Marco Iasevoli, Gianni Di Santo e Antonio Martino
*la foto ritrae la prima riunione del Consiglio dei Ministri (fonte: immagini messe a disposizione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con licenza CC-BY-NC-SA-3.0 IT)