Se vuoi la pace vivi per l’unità

Si vis pacem vive unitatem
“Se vuoi la pace vivi per l’unità” di Alberto Lo Presti
L’ordine internazionale è investito da crisi evidenti: le guerre, i conflitti economici, il declino delle democrazie, l’insorgere degli autoritarismi, indicano che stiamo vivendo un momento storico fra i più delicati della nostra epoca. La società internazionale è sconvolta da vecchie e nuove divisioni. La competizione fra gli attori più influenti del pianeta produce una logica di diffidenza che contagia tutto ciò che incontra: famiglie, associazioni, movimenti, organismi internazionali. Da tali divisioni si producono linee d’attrito che attraversano l’intero pianeta e che sfociano in diffusi antagonismi. Oggi, perciò, viviamo in un sistema scellerato, nel quale le divisioni producono le guerre e le guerre alimentano le divisioni.
La divisione non risparmia neanche i pacifisti, col risultato che il comune intento verso la pace passa in secondo piano, rispetto alle polemiche sulle vie per risolvere i conflitti in corso. Tale divisione è spesso il risultato di una comprensione parziale del quadro complessivo delle sfide politiche attuali. L’obiettivo della pace interseca vari temi complessi: il ruolo delle organizzazioni internazionali, la qualità dei processi democratici, la rappresentatività della classe politica, la visione multilaterale dell’ordine internazionale, la finanza internazionale, ecc. Nel groviglio di tali processi è facile che le opinioni incontrino prima o poi qualche elemento polarizzante, sollecitatore di sterili polemiche sui massimi sistemi filosofici. Così i pacifisti si ritrovano disposti su opposte fortificazioni, ciascuna delle quali ha arruolato arbitrariamente il pontefice più congeniale alle tesi propugnate, il testimone più allineato con la loro visione, l’esperienza più congrua alla propria proposta. Inutile a dirsi, in questo clima di disorientamento generale, le manipolazioni dell’informazione trovano terreno fertile per attecchire e propagarsi.
Il risultato è che non si capisce più il significato della parola pace. Tutti, almeno a parole, ripudiano la guerra. Perfino gli odierni dittatori dicono di desiderare la pace nei territori che stanno devastando a suon di bombe, e accusano i popoli che tentano di resistere al loro dominio di scegliere la via della guerra (la resistenza armata) in luogo della loro pace. È una perversione che la storia conosce bene. Ne abbiamo esempi che provengono fin dall’antichità. Tucidide ne raccontò un episodio, quando descrisse cosa accadde a Melo, durante la Guerra del Peloponneso, fra Atene e Sparta, 2500 anni fa. Melo era un’isola collocata nel Mar Egeo, che non aveva preso parte al conflitto in corso. Invece di lasciarla stare, gli ateniesi credettero utile offrirgli la loro pace, cioè una resa incondizionata al loro dominio, così da garantirsi la loro lealtà. I Melii non accettarono l’ingiusta pace degli Ateniesi. Scelsero la libertà, il bene politico principale, senza il quale tutti gli altri hanno poco o nulla valore. Pagarono la loro scelta ideale con massacri e deportazioni, gli strumenti che i finti-pacifisti ateniesi non ebbero remore a impiegare nei loro confronti.
In tanti parlano di pace, anche i guerrafondai, cioè coloro che traggono vantaggi politici ed economici dal moltiplicarsi dei conflitti. Nel labirinto delle opzioni politiche, gli operatori di pace dovrebbe attivare gli anticorpi necessari per non cadere nelle strumentalizzazioni. Forse i lettori di Nuova Umanità potranno trovare utile l’esperienza di Igino Giordani, noto ai più come il «deputato di pace», per le sue prese di posizione parlamentari, per il rifiuto di sparare contro il nemico mentre si trovava in trincea, per le denunce dell’inutilità della guerra, per la proposta della legge sull’obiezione di coscienza, ecc. Si trovò a parlare di pace nel clima infuocato dello scontro ideologico del Ventesimo secolo. Come oggi, anche all’epoca tutti si dichiaravano a favore della pace: i liberali desideravano raggiungerla estinguendo il socialismo ed estendendo il libero mercato su scala planetaria; i socialisti la concepivano come risultato dell’eliminazione del capitalismo e la costruzione di un ordine democratico nel quale il potere fosse, finalmente, nelle mani dei lavoratori. Ciascuno – in nome della sua idea di pace – si poneva in conflitto con l’altro. Giordani chiamò questa distorsione la «logica di Caino», osservando – in memorabili scritti – che il sogno della pace viveva così in stretta connessione con l’incubo della guerra da rischiare di rimanerne contagiato.
Per tali ragioni Giordani si rendeva conto che non bastava affatto proclamarsi attori di pace. Ci voleva una scelta ancora più radicale: l’unità. Ed egli così fece: costruì la pace votandosi all’unità, con iniziative clamorose, per i suoi tempi. Nel clima intossicato da veti, polarizzazioni e perfino scomuniche ecclesiali, Giordani avviò un dialogo con i comunisti, promosse un’Intesa interparlamentare per la pace (un gruppo trasversale in parlamento), sfidò le direttive del suo partito politico (la Democrazia Cristiana) per imbastire processi di convergenza con le forze politiche all’opposizione. L’unità fu il cardine della sua visione del mondo. Essa s’era chiarita e infervorata nell’incontro con Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari, avvenuto nel 1948. Era un’ideale di unità che sgorgava direttamente dal Vangelo, che dava senso alla storia umana, che riusciva a mettere insieme l’esigenza di pace e quella di giustizia. Intravide che l’unità era la soluzione ai divisivi pacifismi del suo tempo.
Anche oggi il campo sembra percorso da una linea immaginaria che separa i pacifisti sostenitori del disarmo dai pacifisti sostenitori della deterrenza. Al netto delle disinformazioni e delle manipolazioni, tale divisione è ingiustificata. A meno che non si assumano delle improvvide visioni radicali, si potrebbe essere d’accordo sulla necessità di impedire la corsa al riarmo generale e, al tempo stesso, ammettere la necessità che ogni Stato debba provvedere alla sicurezza dei propri cittadini, attraverso l’organizzazione di un sistema di difesa sufficiente in relazione alle minacce in atto. La tendenza a divaricare le posizioni ben al di là di quanto meritino descrive bene il clima intossicato nel quale viviamo.
Visse una situazione simile anche Giordani, quando ricevette l’accusa di essere divisivo nei confronti dell’azione di governo.
Era il 1950 e il mondo stava col fiato sospeso per quanto stava accadendo in Estremo Oriente. I comunisti della Corea del Nord avevano invaso la Corea del Sud, alleata degli Stati Uniti. Si temeva l’estensione del conflitto in altre parti del mondo e in particolare in Europa, scenario anch’essa della contrapposizione fra i blocchi occidentali e orientali. Al governo, in Italia, c’era De Gasperi. Il governo da lui presieduto aveva sostenuto la necessità di aumentare il bilancio della difesa, di tornare a rifornire gli arsenali militari e di rinsaldare le posizioni atlantiche. In Parlamento, Giordani – suo vecchio amico – fece tutt’altro discorso, sostenendo le ragioni della pace e mettendo in guardia contro la folle corsa agli armamenti.
Anche all’epoca la «logica di Caino» tentò di polarizzare le opinioni e alcuni periodici sottolinearono la distanza fra le due posizioni. Fu lo stesso Giordani a spiegare che non si dava alcuna contraddizione fra la sua posizione e quella di De Gasperi, spiegando che il governo aveva il dovere di operare per provvedere alla sicurezza e alla difesa (“La dialettica di Caino”, La Via, 2 settembre 1950), al tempo stesso, però, la Democrazia Cristiana, in quanto partito cristiano, doveva favorire e incentivare le iniziative che potessero costruire scenari di pace e di disarmo universale: «il governo poiché ritiene che questo sia il suo dovere, riarmi, sia pure con misura; ma il Partito cerchi il disarmo, come è suo dovere, dal momento che si definisce cristiano» (“Truman prende in parola la Russia”, La Via, 28 ottobre 1950).
La distinzione fra ciò che compete al governo e il dovere del parlamentare cristiano non è una sottigliezza. Il tema è la libertà. Se il governo è chiamato a fare ciò che è necessario, al Parlamento dovrebbe competere la funzione di esplorare le soluzioni inedite, i traguardi possibili e desiderabili. Non aveva alcun senso – per Giordani – appiattire l’azione del parlamentare della Democrazia Cristiana sulle esigenze del governo guidato da De Gasperi. Giordani era del tutto alieno ai meccanismi della cosiddetta disciplina di partito. La sua non era una rottura dell’unità della maggioranza, ma il dispiegamento della missione del cristianesimo che, in quanto realtà trasformante la storia umana, è chiamato a risolvere le situazioni contingenti (provvedere alla difesa) e al tempo stesso puntare ai traguardi superiori (il disarmo multilaterale). La sua scelta, dunque, non era divisiva, ma al contrario pienamente proiettata all’unità. Una unità tangibile, storica, che lo portava a preoccuparsi degli equilibri mondiali senza arrendersi di fronte allo scontro ideologico, foriero di guerre. Una unità che assicurava anche al governo politico, del quale riconosceva il diritto e il dovere di occuparsi del bene comune, a partire dalla vita e dalla libertà.
La pace è un obiettivo complesso, chi crede di avere la soluzione facile, in tasca, per risolvere tutti i problemi ad essa connessi, s’illude. Una volta che la bussola della propria esistenza è orientata all’unità, non ci sarebbe nulla da temere dalle distinzioni sui modi di concepire e impegnarsi per la pace. Si valorizzerebbero le differenze, si promuoverebbero le iniziative comuni, si potenzierebbe l’azione di contestazione della logica della guerra. Sarebbe una scelta di autentica libertà, che indicherebbe alla cultura contemporanea quale scatto civile dovremmo fare per essere all’altezza delle sfide odierne: si vis pacem vive unitatem.
Se vuoi la pace vivi per l’unità