Città aperte, creative, sostenibili

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24 Gennaio 2021

Una riflessione sul senso dell’abitare secondo un modello più prossimo e più umano, anche nel rispetto delle norme entrate in vigore contro il Covid19. In ogni città fedele alla sua vocazione si diffonderanno pluralità e integrazione «Amatela questa città, come parte integrante, per così dire, della vostra personalità. Voi siete piantati in essa: in essa saranno piantate le generazioni future che avranno da voi futuro… Ogni città racchiude in sé una vocazione e un mistero… Custoditene le piazze, i giardini e strade, le scuole… meritate le sublimi grandezze di civiltà cristiana di cui è ricca…» (Giorgio La Pira). Il mondo cambierà a partire dalle nuove città. La biodiversità urbana sarà la caratteristica in ecosistemi aperti e plurali. Sperimenteremo nuove forme di vita e modi di abitare. Saremo esposti alla varietà, alla differenza, alla pluralità degli stili di vita in una società multiculturale delle metropoli.

Nei piccoli centri sarà più forte la resistenza al cambiamento. In generale saremo liberi di scegliere gusti, amicizie, luoghi, interessi. Le scuole saranno i laboratori di integrazione tra diversità etniche, sociali, familiari. Le città ci plasmano, ci liberano, ci consentono di essere noi stessi senza essere giudicati. L’anonimato favorisce nuovi modi di essere. La diversità può causare però disagi e conflitti specialmente di notte. Ad Amsterdam hanno dovuto nominare un sindaco di notte per far coesistere le esigenze dei cittadini tra riposo, rumore, traffico e pulizia. Non sarà facile conciliare stili di vita, comportamenti, abitudini, spazi diversi. Siamo nella biodiversità delle grandi città in uno scenario di precarietà. Ogni cosa in natura nasce dalla biodiversità. Anche le città contemporanee si trasformano ogni giorno nel gioco di varietà, differenze sociali, creatività umana. Sono il luogo della sintesi imperfetta tra opposti: alto, basso, singolare e molteplice, poco o troppo, mescolato e distinto. Questa l’analisi di Elena Granata in Biodivercity, Giunti, 2019. Esperienze di partecipazione dal basso, inclusione e integrazione in conflitto con visioni identitarie avverse all’immigrato. Città imputate di crisi climatiche che devono trasformarsi in chiave green. Città come laboratori di innovazioni, esperimenti, follie creative. Come preservare con il buon senso la biodiversità dei preziosi contesti locali? Dalla presunzione razionalistica dei primi piani urbanistici, che odiavano il disordine, siamo oggi arrivati alla smart city, al sogno digitale della connettività totale, delle reti veloci e simultanee. La città sarà simile a un computer in grado di elaborare ogni domanda e risposta. Prevale però ancora la ragione sui sentimenti, l’ossessione ordinatoria sulla vita con la sua creatività. Si rischia così di sacrificare lo slancio progettuale, l’anima, la vocazione di una città, come riconosciuto da Chiara Lubich e Giorgio La Pira, a freddi regolamenti edilizi.

Ogni città ha il suo carattere, tono e codice genetico come organismi viventi. Occorre uno spirito poetico per cogliere l’anima di una città. Non possiamo trascurare allora gli aspetti umani, affettivi, emotivi delle polis vive. Servono nuovi professionisti: “il politico-pedagogista, l’imprenditore-artista, l’informatico ambientalista, il paesaggista-avvocato, l’architetto-giardiniere, il designer-falegname, il neurobiologo urbanista, l’artista-filosofo”. Professionisti ibridi, capaci di conciliare bisogni con immaginazione, creatività quotidiana con la salute del corpo sociale che vive la città. Dobbiamo imparare a vedere l’architettura in unità con gli altri saperi facendo convivere in armonia le differenze. Allora vedremo termovalorizzatori con piste da sci sul tetto come a Copenaghen, parco Spaggiari a Parma, una nuova Taranto dopo bonifica ex-Ilva. Si tratta di coniugare lavoro e gioco, razionalità e delirio, prosaico e poetico nella Bellezza. Dopo la pandemia dovremo vivere in spazi larghi con stili di vita ecocompatibili nelle città a 15 minuti a piedi per tutti i servizi, come a Parigi o nei piccoli borghi e in medie città con una “discordia concorso” o “diversità creatrici” e “contraddizioni generative”, come afferma Elena Granata. Così la ferrovia abbandonata può diventare un parco, le funivie possono sorvolare le città, le piazze possono allagarsi come a Rotterdam, si possono avere foreste sul lungomare, boschi verticali, orti urbani, il gioco e lo spazio tra le case, manifatture a chilometro zero. Insomma, possiamo realizzare la biodiversità urbana, momenti di ordinaria felicità, progetti rivoluzionari con il genio contemporaneo attraverso il pensiero plurale come azione collettiva. È il tempo dei rigeneratori urbani, del muoversi come diritto civile, di città che imparano dalla natura, di utilizzare i beni comuni come risorsa, del prendersi cura di spazi e persone, di trasgressioni virtuose ricostruendo né dov’era né com’era. Il paesaggio è l’eros della terra e noi lo assorbiamo in circoli virtuosi ed efficaci. Dobbiamo pensare le connessioni per città veramente intelligenti.
La connettività nel piacere di vivere in città “belle” e sane è il nostro destino. Da qui parte la lotta ai cambiamenti climatici e alla decarbonizzazione. Il recupero delle strutture industriali abbandonate sarà fondamentale. Come abbiamo visto, sta affermandosi il principio territoriale.
Divenuto marginale nei modelli socioeconomici del passato, è tornato di grande utilità in questa crisi pandemica. È entrato in crisi il capitalismo cognitivo con il suo ottimismo funzionale e tecnologico, con i suoi flussi globali a prescindere dai territori. Stiamo tornando alle “comunità concrete” di vita e lavoro, proposte da Adriano Olivetti. Oggi infatti il Covid19 ha messo a nudo, come mai in passato, le fragilità territoriali. Va rivisto per Alberto Magnaghi il rapporto tra abitanti e territorio in una nuova civilizzazione antropica. Occorre una nuova coscienza di luogo, come proposto da Giacomo Becattini, in vere e proprie comunità territoriali innovative. La nostra hybris di potenza tecnoscientifica ha messo a rischio il pianeta Terra con deforestazioni, allevamenti intensivi, intense comunicazioni satellitari. È un ritorno al territorio che cambierà il modo di percepire il mondo. Ci alimenteremo di odori, sapori, voci, architetture, canti, tecnologie appropriate al luogo. È la conversione ecologica e territorialista dell’economia, “arte dell’abitare” fin dalla sua nascita, con il territorio bene comune. Ripartiamo dalle città, in conclusione, per arrivare al mondo unito con il metodo di Chiara Lubich: «Quindi, prendete le misure della città. Insieme cercate i più poveri, gli abbandonati, gli orfani, i carcerati, quelli che sono messi ai margini, e date, date sempre: una parola, un sorriso, il vostro tempo, i vostri beni… Non lasciate nessuno solo… Condividete ogni cosa con i vostri amici…».

Silvio Minnetti da Città Nuova