Spezzare le catene
Jean Renè Bilongo, Carlo Cefaloni, Giuseppe Gatti, Toni Mira (Città Nuova Ed. 2019), pp. 136
Nella bulimia di un mercato editoriale in crisi, bisogna spiegare il senso di un libro che ha un titolo così esigente:
“Spezzare le catene. Un lavoro libero tra centri commerciali e caporalato” Città Nuova editrice 2019. Ho avuto l’occasione e l’onore di poter lavorare alla stesura di questo testo con persone credibili e che stimo. Toni Mira è un maestro del giornalismo senza padroni, presente dentro le ferite e i segni di riscatto della nostra società. Una voce ferma e di riferimento per cercare di capire la realtà.
Di Jean Renè Bilongo mi colpisce la prospettiva giusta e positiva che riesce a mantenere nel raccontare la realtà complessa dell’immigrazione, prima ancora del fenomeno del lavoro servile, dove non c’è differenza di provenienza o colore della pelle, secondo l’impronta del sindacalismo originario di Placido Rizzotto e tanti altri. Giuseppe Gatti, magistrato, si confronta, nel suo quotidiano lavoro, con la ferocia del dominio mafioso attraverso la tenacia di ripartire sempre da un “noi” che ci costituisce come esseri umani. Dalla paziente ricostruzione del legame sociale come antidoto possibile ad un male che altrimenti trionfa perché ci convince della sua impossibile redenzione.
Io, come tento di fare su più fronti, cerco tracce delle cause strutturali delle iniquità che finiamo per considerare fisiologiche. Perfino la riduzione in schiavitù dentro filiere che possiamo vedere e toccare. Il caporalato è il volto brutale e infame di una catena di violenza annidata dentro il sistema delle merci, dalla serra alla logistica alle leve della grande distribuzione organizzata. Sono convinto che senza toccare questo meccanismo rischiamo, come sempre, di rassegnarci a curare le vittime o a rinchiuderci in nicchie consolatorie. Il cosiddetto “consumo responsabile”, se davvero possibile, è solo una presa d’atto di una realtà da ribaltare
Il libro vuole offrire un affresco vivo e partecipato del nostro tempo, dove spesso si usa il lavoro come forma di ricatto e non di riscatto, per contribuire ad un possibile percorso di liberazione. Vuole parlare a molti che sembrano non capire l’urgenza di tale impegno, forse perché assuefatti all’impossibilità di poter far qualcosa per cambiare l’ordine prestabilito delle cose. Nel testo si pone l’esempio di Marco Omizzolo (del quale ammiro il metodo, la passione e il coinvolgimento diretto) che ha appena pubblicato un poderoso testo di ricerca su “uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana”. Così come, ad esempio, riconosco e vedo come una ricchezza l’impegno e la ricerca di “Terra” e di tante storie (da “sfruttazero e nocap”). Si tratta di contribuire a comporre un tassello di un mosaico di un disegno più grande, per comporre una sinfonia altrimenti impossibile seguendo la logica della competizione.
«Mai fummo così liberi quando trovammo la forza di ribellarci». Teresio Olivelli (1916-1945) “Ribelle per amore”